Truman Capote e lo sparviero di Ischia

«A Londra un giovane artista mi disse: “Che cosa meravigliosa dev’essere per un americano viaggiare per la prima volta in Europa: voi non potrete mai farne parte, così nessuna delle sue pene è vostra, non dovrete mai sperimentarle; sì per voi c’è solo la bellezza”. Non comprendendo che cosa intendesse dire, me ne offesi. Ma più tardi, dopo aver trascorso qualche mese tra Francia e Italia, capii che aveva ragione: io non appartenevo né sarei mai appartenuto all’ Europa. Potevo andarmene quando volevo, tranquillamente, e per me c’ era solo l’ aria dolce, benedetta di bellezza. Ma non era una cosa così meravigliosa come quel giovane aveva immaginato: era doloroso».Chi scrive è Truman Capote (1924-84), di cui Garzanti ha da poco pubblicato Ritratti e osservazioni. Tra giornalismo e letteratura, un ampio volume che raccoglie il meglio della sua produzione per giornali e riviste. E in cui, tra una cattivissima intervista a Marlon Brando e due favolose chiacchiere con Marilyn, tra una crociera nel Mediterraneo con gli Agnelli e una tournée in Russia con Porgy e Bess, passando per Haiti Santorini e Tangeri, c’ è anche un bel ritratto di una Ischia d’ altri tempi.Era il 1949 quando Capote si mette in viaggio per il suo personale Grand Tour. Aveva quasi venticinque anni, la consacrazione planetaria diColazione da Tiffany era di là da venire, ma lo scrittore si era già fatto notare con Altre voci, altre stanze, romanzo che aveva riscosso grande attenzione (i maligni sentenziavano che il merito era della curiosità suscitata dalla sua foto in copertina: chi era quell’ efebo biondo? “Sembra un angelo di dieci anni”). Così il giovane Truman s’imbarca sul Principessa, lasciandosi alle spalle «la facciata bianco gesso di Napoli». Non ricorda più perché era arrivato a Ischia. A quel tempo «se ne parlava molto, ma pochi a quanto pare l’avevano vista realmente»; qualcuno lo aveva messo addirittura in guardia («Vi rendete conto che c’è un vulcano attivo?»); in più un aereo di linea che faceva Roma-Il Cairo era andato a schiantarsi proprio su una delle sue cime («Tre erano stati i superstiti, ma nessuno li aveva più visti vivi, perché erano stati finiti a sassate dai pecorai intenti a saccheggiare il relitto»). «Il Principessa filava nella baia come un delfino in vena di scherzi», portando «condannati diretti al penitenziario dell’ isola di Procida» e «giovani in procinto di entrare in monastero».
Quindi l’arrivo a Porto: «La maggior parte della gente raramente se ne allontana, perché vi sono alcuni alberghi ottimi, spiagge eccellenti e, appollaiato al largo come un gigantesco sparviero, il castello rinascimentale di Vittoria Colonna». Ma la sua destinazione è Forio, e vi si dirige «in un crepuscolo verde, sotto un cielo di prime stelle», «dove le barche da pesca, illuminate da torce, strisciavano come lucenti ragni d’ acqua». Era meridionale Truman Capote, e si sente. Era cresciuto a Monroeville, Alabama. Ma era nato ancora più a sud, a New Orleans, sul mare del Golfo del Messico. E fu al sud che ambientò le sue prime storie, perché fu al sud che, tredicenne, sentì per la prima volta frusciare nei boschi la musica della terra. Quella musica che «conosce la storia di tutta la gente della collina, di tutta la gente che è vissuta, e quando saremo morti racconterà anche la nostra», avrebbe scritto ne L’arpa d’erba. E anche qui, nel sud dell’ Europa, è alla terra che Capote cerca di sintonizzarsi. Certo, a Ischia è distratto da una cucina fin troppo abbondante, «cinque portate con vino a pranzo e a cena»; è deliziato dalla locandiera Gioconda, di cui ascolta storie infelici di amanti infedeli e di malocchi e di lettere dall’ Argentina che non arrivano mai (e già anche in questo pezzo emerge quel suo esprit de frivolité che gli regalerà tanto successo agli inizi quanto disastro alla fine, quando gli procurerà l’ astio – anzi, molto più insopportabile, la sdegnosa indifferenza – delle tante amiche aristocratiche di cui aveva spiattellato confidenze e peccatucci nel balzacchiano Preghiere esaudite); un’altra volta è estasiato dalla Vergine Immacolata portata in processione nel giorno della festa, quando «le vecchie avevano tirato fuori i loro scialli più lunghi, gli uomini si erano pettinati i baffi, e all’idiota del paese avevano fatto indossare una camicia pulita».

Sì certo, ma il giovane Truman sembra in cerca di altro. «5 aprile. Una passeggiata lunga, pericolosa. Abbiamo scoperto una nuova spiaggia». «Se ci si incammina fuori dal paese, subito si mette piede su uno dei sentieri che si inerpicano in ogni direzione verso le vigne, dove le api turbinano nell’aria e le lucertole si rosolano verdi sui germogli. Il sentiero corre su rocce vulcaniche che scendono a picco; ci sono tratti in cui è meglio chiudere gli occhi: sarebbe una caduta spaventosa, e gli scogli sottostanti sembrano dinosauri in letargo». «Seguendo le tracce dei papaveri arrivammo, giù per un sentiero, a una strana spiaggia nascosta». «In una roccia il mare aveva scavato un sedile, ed era bellissimo mettersi là e lasciarsi investire dalle onde»: «sdraiandoci al sole, ci volgemmo a guardare gli scogli, e vedemmo anche i verdi filari di viti e la montagna incappucciata dalle nuvole». Chissà se in quei felici momenti ischitani Truman sentì di appartenere almeno un poco all’Europa ascoltando la nostra arpa d’erba. Noi, che oggi non ci inerpichiamo più tra le vigne e non seguiamo le tracce dei papaveri alla ricerca di spiagge segrete – se non altro per il timore di quel che si potrebbe trovare al loro posto – godiamoci piaceri più domestici di quelli ricercati da Capote: tra questi, c’è la voluttuosa voce della sua prosa.

la Repubblica, 3 settembre 2008  parte 1 / parte 2

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